Messages

Marco Acri

Dal 05 Dicembre 2023 al 02 Febbraio 2024

È strano pensare come il primo quadro mai dipinto da Marco Acri sia interamente basato sul “lettering”, ossia sulla parola scritta. Un adolescente in un’afosa giornata estiva va a zonzo in motorino per la città e a bordo strada nota l’insegna di un’officina con iscrizioni dipinte a mano. Una visione fugace, un soggetto all’apparenza banale, ma che gli rimane per sempre impresso nella memoria, tanto che riappare insieme all’esigenza di riprodurla: inizia così la storia di Acri con la pittura. Volutamente sbavata, spinta dentro scompostamente a non fuoriuscire dai bordi, in Ditta Nocerino (2004) la composizione ricalca le irregolarità delle scritte sul cartello, in un approccio che definiremmo iperrealistico.

Ma la pittura di Acri è non tanto il tentativo di riprodurre la realtà così come la vediamo – ammesso che esista una percezione oggettiva della visione, e ammesso che ad Acri interessi – quanto il desiderio di cogliere la profondità abissale di un guizzo passeggero, l’eternità di un movimento nella memoria, un fermo immagine sull’universalità di un’epifania, che tuttavia può essere alla portata di tutti, nel quotidiano, purché qualcuno ci ricordi di farlo – magari lasciandoci un messaggio in codice, o su un post-it.

È strano, si diceva poc’anzi, che Acri parta dalla parola scritta e arrivi a spogliarla fino al segno; ma, a ben guardare, forse siamo di fronte a una metamorfosi spontanea nella strutturazione di un suo proprio alfabeto visivo. La personale Messages presenta due esempi, diversi e complementari, della ricerca pittorica finora intrapresa da Acri: sei tele di medio formato della serie “Hidden Message” e due quadri di piccolo formato della serie “Don’t call it post-it”. Nelle sue opere, la razionale impronta architettonica e la conoscenza sapiente delle forme e degli equilibri spaziali si dispiegano secondo una marcata, rigorosa e pulita verticalità, convivendo armoniosamente con impulsi che tendono, e devono molto, alla poesia visiva.

Nella serie “Hidden Message” (2018 – in corso), sottili linee disposte l’una di seguito all’altra in file ordinate celano un alfabeto, le cui lettere sono decifrabili solo grazie al colore. Se nella censura, le linee, solitamente nere, vengono utilizzate per elidere parti di testo, qui le linee colorate rivelano un messaggio nascoso, richiamando la funzione delle “cancellature” di Emilio Isgrò, che offrono un processo costruttivo e aprono significati attraverso apparenti sottrazioni.

In occasione della mostra, Acri stratifica le chiavi interpretative della sua ricerca espressiva attraverso i nuovi media, esortando a spingersi al di là delle abitudini e adottando uno spirito ludico nel relazionarsi con i suoi lavori. Incoraggia, così, all’utilizzo di Instagram nell’interazione attraverso i filtri creati ad hoc per decifrare il messaggio.

Con “Don’t call it Post-it” (2005 – in corso), invece, frammenta concetti e immagini in una griglia, semplificando il soggetto come un singolo pixel. I dipinti, realizzati su cartoncini quadrati meticolosamente tagliati a mano dall’artista, trasmettono idee attraverso colori e forme, giocando sull’illusione che siano effettivamente Post-it. Il soggetto, pur nella sua estrema astrazione, è anche simbolico; una lieve interferenza nella quiete apparente della superficie, sia essa una nuvola nel cielo o una boa che macchia l’azzurro del mare. Forse, però, sono proprio le stesse a offrire un aiuto: un’ombra alla quale ripararsi, un appiglio per mettersi in salvo.

I dipinti di Acri non sono solo raffinati e piacevoli da guardare; c’è di più per chi si avventura oltre la superficie; per andare oltre, forse c’è davvero bisogno di un’interferenza, di un glitch che

faccia aprire gli occhi. Se da un lato esortano ad un libero e ironico “disengagement”, offrono al contempo dei brevi quanto onesti “reminder”, a seguire i propri sogni, ad amare sé stessi, a serbare il ricordo speciale delle “prime volte”, a far tesoro di quelle piccole cose e sensazioni che rendono l’ordinario straordinario. In fondo, “It’s all about how you look at it”.

Testo critico di Valeria Bevilacqua

Foto: Paolo Vitale

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